Job Hopping: generazioni in movimento

Quello del Job Hopping è un fenomeno globalmente sempre più diffuso. Una vera e propria rivoluzione culturale, portata avanti dalle generazioni più giovani, che abbandona l’idea del famoso posto fisso in cui trascorrere tutta la propria vita professionale. I job hopper, infatti, tendono a cambiare ripetutamente impiego, saltando quindi da un’azienda all’altra, se non addirittura […]

Job Hopping: generazioni in movimento

Quello del Job Hopping è un fenomeno globalmente sempre più diffuso. Una vera e propria rivoluzione culturale, portata avanti dalle generazioni più giovani, che abbandona l’idea del famoso posto fisso in cui trascorrere tutta la propria vita professionale. I job hopper, infatti, tendono a cambiare ripetutamente impiego, saltando quindi da un’azienda all’altra, se non addirittura da un settore all’altro.

Chi sono i job hoppers?

Per quanto in alcuni Paesi possa essere una tendenza generalizzata, il job hopping sembra interessare particolarmente le generazioni più giovani. Prima di addentrarci nel vivo del fenomeno, cerchiamo di definire a grandi linee a chi ci riferiamo. Viene definita Millennial la generazione dei nati indicativamente tra il 1981 e 1996, mentre Generazione Z – quella che sta progressivamente entrando nel mondo professionale – identifica i nati dal 1997 al 2010.

Studi su questi segmenti generazionali segnalano un sempre più marcato interesse alla responsabilità sociale di impresa, che li porta a informarsi e scegliere attivamente in quale tipo di impresa voler lavorare affinché essa rispecchi i propri valori e intenti. Viene quindi data sempre maggior importanza alla missione aziendale e alle azioni perseguite per creare un impatto positivo sul tessuto sociale, ma anche al benessere garantito ai dipendenti e collaboratori. In questo senso la pandemia ha rafforzato la volontà di avvicinarsi a imprese e organizzazioni che rispettino la propria etica, dalla flessibilità organizzativa alla responsabilità in termini sociali.

Parola d’ordine: cambiamento

Secondo un recente studio condotto da Deloitte, la percentuale di giovani americani che lascerebbe il proprio posto di lavoro entro due anni è cresciuta nel 2021: si assesterebbe al 36% per i Millennials e al 53% per la Gen Z, rispetto al 31% e 50% dell’anno precedente. I Millennials che invece preferirebbero rimanervi per almeno cinque anni sarebbero il 34%, mentre per i più giovani si parla solo del 21%.

Tra le motivazioni principali alla base di questa tendenza c’è spesso l’insoddisfazione per l’attuale posto di lavoro. Secondo uno studio di IBM, nel 2020 i lavoratori hanno cambiato lavoro in cerca di maggiore flessibilità (32%), attività più mirate e significative per il proprio percorso professionale (27%) o, ancora, maggiori benefit e supporto al benessere personale (26%). Per il 25% degli intervistati, invece, era importante lavorare per un’azienda che rispecchiasse i propri valori, a riprova della crescente importanza riservata alla missione e all’etica aziendale.

Un’ulteriore motivazione è il miglioramento del proprio trattamento salariale: questo salto da un lavoro all’altro sembrerebbe infatti portare in dote un +30% sugli stipendi statunitensi.

E in Italia?

Se per i job hoppers americani questa è una tendenza sdogata, se non in voga, bisogna però considerare che il Job Hopping tende a funzionare bene in quei Paesi con basso tasso di disoccupazione e alta richiesta di lavoratori. Difficile quindi dire lo stesso per l’Italia, dove la disoccupazione si aggira al 9% e arriva fino al 28% per quanto riguarda i giovani. Forse si può dire che per molti italiani il cambiamento è più spesso una necessità, dettata da contratti precari e a termine (potremmo chiamarlo Job Hoping?).

Nonostante questo fenomeno possa far fatica ad attecchire in maniera generalizzata – se non per alcuni settori e profili altamente richiesti – è interessante considerare questa tendenza generazionale per elaborare strategie atte a coinvolgere i lavoratori e trattenerli in azienda.

Un’arma a doppio taglio

Ci sono più vantaggi o svantaggi? Sicuramente essere dinamici e fare esperienza in diversi ambienti può ampliare conoscenze e competenze da offrire al nuovo team di lavoro, diventando molto competitivi anche per quanto riguarda motivazione, flessibilità, adattabilità e multidisciplinarità. D’altro canto però ci si può domandare se un cambio così continuo non limiti il grado di conoscenza ed expertise nel proprio settore.

C’è da dire che quello del posto fisso è un concetto ormai anacronistico oggi, ma le aziende cercano garanzie di fedeltà aziendale per investire su un candidato. Ne risulta che spesso si privilegia la stabilità dei percorsi precedenti, piuttosto che la varietà di esperienze e all’innovazione che può portare una risorsa dal CV dinamico.

La chiave potrebbe essere quindi la comunicazione: spiegare e sottolineare le motivazioni che hanno spinto a muoversi e gli aspetti più positivi appresi lavorando a contatto di differenti ambienti e settori professionali. Il cambiamento culturale da qualche parte deve pur iniziare, no?

Importante è considerare come punto di partenza che nessuno tende a compiere grandi cambiamenti senza decise motivazioni. Andarsene da una realtà conosciuta può essere fonte di stress, ma mettersi in gioco contribuisce ad aprire la strada a nuove soddisfazioni personali e professionali. Contro la paura, che è pur sempre fisiologica, il consiglio di armarsi di un po’ di pazienza e tanta creatività e determinazione.

Insomma, vedremo se la tendenza americana del Job Hopping si consoliderà anche in Italia. Resta da riflettere su cosa si può fare, o migliorare, per attrarre e trattenere le nuove generazioni di lavoratori nella propria impresa. Cosa ci frena dal cambiamento?